LA CAMPANA DI VETRO, Sylvia Plath. Recensione.

Titolo: La campana di vetro
Autore: Sylvia Plath
Editore: Mondadori
Genere: Narrativa contemporanea
Data di uscita: Ottobre 2016


Brillante studentessa di provincia vincitrice del soggiorno offerto da una rivista di moda, a New York Esther si sente come un cavallo da corsa in un mondo senza piste. Intorno a lei, l’America spietata, borghese e maccartista degli anni Cinquanta: una vera e propria campana di vetro che nel proteggerla le toglie a poco a poco l’aria. L’alternativa sarà abbandonarsi al fascino soave della morte o lasciarsi invadere la mente dalle onde azzurre dell’elettroshock. Fortemente autobiografico la campana di vetro narra con agghiacciante semplicità le insipienze, le crudeltà incoscienti, gli assurdi tabù che spezzano un’adolescenza presa nell’ingranaggio stritolante della normalità che ignora la poesia.



La trama del romanzo segue le avventure di Esther, una giovane ragazza di provincia che passa dall’adolescenza all’età adulta. Dopo aver vinto un posto di apprendistato presso la rivista femminile Ladies’ Day a New York, Esther inizia a mettere in dubbio il suo posto nell’America borghese postbellica.
La narrazione parte nel giugno 1953 a New York, dove Esther viene travolta dalla frenesia della città. Qui perde ciò che l’aveva contraddistinta fino ad allora, una laboriosità scolastica che, era convinta, l’avrebbe accompagnata anche nella vita lavorativa. La sua intelligenza e dedizione allo studio le avevano permesso di vincere borse di studio e concorsi, ma ora gli eventi di New York la portano a un atteggiamento negligente verso il suo lavoro. La giovane inizia a mettersi in discussione. Sono diverse anche le delusioni che incontra con gli uomini, figure che emergono singolarmente per un capitolo o poco più solo per portare Esther sempre più a confrontare i valori con cui è cresciuta con le proprie emozioni e sensazioni. Il più importante tra tutti è Buddy Willard, un giovane di buona famiglia del suo paese di origine, che incarna pienamente la visione della figura della donna negli Cinquanta, destinata a divenire moglie e madre. A portare però Esther definitivamente ad allontanarsi da Buddy è il suo atteggiamento ipocrita identificabile come il doppio standard applicato a uomini e donne in campo amoroso, ma soprattutto sessuale. L’esperienza di New York si rivela ben lontana dalle aspettative e il ritorno a Boston dalla sua famiglia non fa altro che portare ancora di più Esther nel baratro della depressione.
Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza piste o un giocatore di calcio di un college messo di colpo a confronto con Wall Street e in abito da passeggio, i giorni di gloria ormai ridotti a una piccola coppa d’oro sul caminetto co incisa sopra una data come la scritta di una pietra sepolcrale.
La seconda parte del romanzo narra infatti dei diversi tentativi di suicidio della ragazza, tutti per lei impraticabili o fallimentari, fino a quando non viene trovata dalla madre e portata da uno psichiatra. Lungo questa fase è evidente come la madre non capisca il turbamento della ragazza e, sebbene provi ad aiutarla come pensa sia meglio, pare chiaro che vi sia un valico insormontabile che le divide. L’ultima sezione ha luogo nell’istituto psichiatrico di Esther dove ritornano alcuni personaggi già incontrati nei capitoli precedenti nelle vesti di visitatori o pazienti; essi dimostrano attraverso le parole come qualsiasi tipo di anticonformismo, in un ambiente caratterizzato da una visione molto netta di ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare, non può che portare alla pazzia. In questo ambiente Esther inizia finalmente a guarire e, sebbene il libro termini con la sua ufficiale dimissione, è chiaro che quel senso di insoddisfazione verso il mondo è rimasto e non potrà essere rimosso.
L’unico personaggio costante in tutta la narrazione è quello della protagonista, Esther.
Esther durante il romanzo dovrebbe crescere e diventare un’adulta, ma anziché evolvere psicologicamente regredisce fino alla pazzia a causa dell’alienazione che percepisce nel mondo tra quello che lei dovrebbe essere e ciò che in realtà è. Esperienze che dovrebbero essere positive la disorientano e sconvolgono fino alla scelta di tentare il suicidio, attentamente ponderata e meticolosamente organizzata. Durante la guarigione, Esther rafforza il suo scetticismo sulle usanze e i costumi della società descrivendosi come rattoppata, ricostruita e omologata per strada.
È un personaggio molto forte, in grado di trasportare il lettore in ciò che sta accadendo dentro di lei. La crescita e lo scontro con la realtà sono sicuramente temi che, in modo diverso, mi hanno colpito, tanto che mi è stato impossibile non empatizzare e sentire una sorta di vicinanza con quanto stava accadendo.
E mentre Costantin e io sedevamo in uno di quegli auditori eleganti e silenziosi delle Nazioni Unite, vicino ad una ragazza russa muscolosa, austera e senza trucco, un’interprete simultanea come Costantin, pensai quanto fosse strano che mai mi fosse venuto in mente prima che ero vissuta pienamente felice solo fino all’età di nove anni.
Dopo malgrado le scouts, le lezioni di piano, acquerello, ballo e campeggio a vela, tutte cose che mia madre a furia di economie era riuscita a farmi avere: malgrado lo stesso college con le esercitazioni sportive in mezzo alla nebbia prima della colazione e delle focacce di mele e le idee che ogni giorno esplodevano come piccoli petardi nuovi – non ero mai più stata veramente felice.
Nessun altro personaggio può dirsi davvero significativo, tutti ruotano intorno a Esther e ne influenzano la visione del mondo, ma sempre come punti nel suo percorso e mai come veri personaggi a sé stanti.
Una piccola nota d’eccezione si potrebbe fare per Buddy Willard, unica persona a essere più volte citata in ogni sezione del romanzo, probabilmente proprio perché è con lui che Esther inizia a sentire un rifiuto verso il ruolo che la società si aspetta da lei. Buddy è un giovane studente di medicina, sua madre e quella di Esther sono amiche ed ex compagne di scuola, sembra gentile e di buona famiglia, il fidanzato perfetto. E forse lo sarebbe anche stato per chiunque altro, ma Esther riesce a trasmettere, nelle sue parole al lettore, il forte disprezzo per questo ragazzo ipocrita e per il suo atteggiamento nei confronti della vita stessa. Nella visione di Esther, Buddy vive una vita semplice, facile, disegnata e modellata apposta per lui, arrivando quasi a invidiarlo; Buddy non può condividere il turbamento della protagonista verso la società e il ruolo della donna, perché ne è egli stesso un’incarnazione. Buddy rappresenta tutti quelli che sono i valori e le aspettative della società e proprio per questo diventa un ottimo capro espiatorio del suo malessere, un’entità fisica su cui, almeno nei pensieri, Esther può riversare il malessere e la rabbia.
E sapevo che malgrado tutti i mazzi di rose e i baci e i pranzetti al ristorante che un uomo faceva piovere abbondantemente su una donna prima di sposarla, quello che egli segretamente voleva, appena fosse terminato il servizio nuziale, era di schiacciarla ben bene sotto i piedi come il tappetino di cucina della Willard.
I macroelementi del romanzo, così come la sua protagonista, sono ispirati a eventi personali nella vita dell’autrice, morta poco dopo la pubblicazione del romanzo. La narrazione avviene in prima persona e, forse per questo, o per la forza che l’autrice pone nel trasmettere aventi che l’hanno personalmente toccata, riesce pienamente a coinvolgere il lettore nelle vicende. La prosa è pulita, in qualche modo cruda e netta, tanto da permettere davvero di percepire le sensazioni di Esther e sentirsi nella sua testa, lasciandosi travolgere dai suoi pensieri e dalle sue opinioni.
La campana di vetro è indubbiamente uno dei romanzi cardine della letteratura americana degli anni Sessanta (periodo in cui è stato pubblicato), per quanto inizialmente passato in sordina. Paragonato al Giovane Holden, i temi trattati sono sicuramente più maturi, anche per l’età stessa della protagonista e presentano vicende di formazione forti e coinvolgenti. Non si può non apprezzare la continua lotta di Esther, prima per morire e poi per vivere, fino a giungere a una vera consapevolezza di sé che però lascia con l’amaro in bocca, poiché non c’è modo di risolvere il problema che l’ha condotta fino alla pazzia.
Esso riguarda una società intera.
Per la persona che è sotto la campana di vetro, vuota, e che è bloccata là dentro come un bimbo morto, il mondo è in sé un brutto sogno.
In un momento storico in cui la salute mentale finalmente è di interesse comune, risulta molto interessante osservare come questa venisse affrontata pochi anni fa, con una totale mancanza di empatia che ancora oggi può essere osservabile nelle persone. Ciò porta inevitabilmente Esther a peggiorare dimostrando come una consapevolezza maggiore della propria psiche e un approccio adeguato possa, magari, prevenire tante piccole e piccoli Esther a diventare davvero tali. Benché alcuni temi, come quello ricorrente della morte e del suicidio, possano non piacere a tutti, si tratta senza dubbio di una lettura consigliata per chiunque, soprattutto in quella delicata fase di passaggio verso l’età adulta. La narrazione stessa, partendo da una fase in cui Esther non ha ancora iniziato a mettere in dubbio valori e scelte di vita, accompagna dolcemente il lettore verso la sua follia. La domanda come siamo arrivati a questo punto? che ci si pone a metà della narrazione, quando ormai Esther tenta il suicidio ed è già troppo tardi, non è altro che la vera essenza del romanzo.





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